In Toscana il loro nome è apparso subito familiare. Perché Rifò è un’inflessione locale del verbo «rifare» e riprende la rigenerazione tessile nata in questa terra votata al lavoro artigiano. Un modo di lavorare – e di recuperare – che si tramanda da oltre un secolo. D’altronde per scrivere pagine di futuro ci si può ispirare a quelle buone del passato, aggiornandole. Siamo a Prato, 200mila abitanti in quella che un tempo era considerata la capitale mondiale del tessile e che poi negli anni ha vissuto fortune alterne per via delle contraddizioni della globalizzazione. Ma le intuizioni geniali riescono a scalare anche i confini locali.

La storio della toscana Rifò

Oggi Rifò fattura più di 3 milioni di euro, vede al lavoro 25 persone e altrettante aziende del territorio. Dall’Italia si guarda al mondo intero con l’export al 30% e la crescita del +20% anno su anno. «Vogliamo offrire una linea di abbigliamento creata a partire da fibre rigenerate, che implicano un consumo ridotto di acqua, coloranti pesticidi e sostanze chimiche. I capi sono prodotti nel raggio di 30 chilometri. Dalla rigenerazione di lana, cashmere e jeans fino alla creazione del capo finito riusciamo a garantire un prodotto made in Italy che non fa il giro del mondo due volte prima di arrivare alle persone», racconta Niccolò Cipriani, 35enne pratese di nascita e talento di ritorno, fondatore e Ad di Rifò, in tasca una laurea conseguita in Bocconi, un passato all’estero per l’Onu e un presente nel ripensare la filiera tessile.

Vince il modello plug-in

Rifò all’inizio entra nel programma di incubazione di Nana Bianca e oggi la compagine societaria vede dieci investitori locali e internazionali. «Un tempo riciclare era semplicemente frutto del buon senso. Vogliamo far conoscere la tradizione della rigenerazione. Siamo legati alle nostre radici e vogliamo presentarci con uno stile contemporaneo», dice Cipriani. Al bando i distretti industriali verticali di un tempo, talvolta strutturati a silos e poco propensi all’innovazione. Nella nuova economia della conoscenza vince il modello plug-in: così oggi si punta all’innesto delle start up con realtà già consolidate, delineando perimetri più allargati. È il tempo degli ecosistemi imprenditoriali che ragionano in chiave di alleanze sistemiche. Si tratta di realtà a forte contenuto tech che operano a ridosso delle principali filiere produttive. Una sorta di imprese cerniera che uniscono il saper fare manifatturiero con modelli di business e di gestione evoluta del capitale umano, facendo tornare al centro la figura imprenditoriale.

«C’è una contrapposizione crescente tra il distretto industriale classico e il nuovo ecosistema imprenditoriale. Il primo si basa su reti dense di micro e piccole imprese manifatturiere specializzate, distribuite nelle province, capaci di cooperare e competere insieme. Un modello policentrico, diffuso e radicato nelle comunità locali. Il secondo è contemporaneo, si sviluppa attorno a start up innovative e ad alta intensità di conoscenza. È più concentrato, selettivo ed è legato alla presenza di capitale umano qualificato e capitale finanziario», afferma Giulio Buciuni, docente di imprenditorialità e innovazione al Trinity College di Dublino e autore di “Innovatori Outsider” per Il Mulino.

Così i territori possono assurgere a incubatori per imprese plug-in. «Passare nuova conoscenza e nuova tecnologia all’interno di filiere industriali mature non è solo una questione tecnologica: è soprattutto una questione culturale. La tecnologia si può acquisire relativamente in fretta: basta investire, comprare macchinari o software, oppure collaborare con centri di ricerca. La vera difficoltà riguarda la disponibilità delle imprese a mettere in discussione il proprio modello di business, ad aprirsi a competenze esterne, ad accettare il rischio dell’innovazione. Nel libro mostro come le imprese plug-in riescano a innestare nuova conoscenza e tecnologia dentro filiere mature proprio perché portano una cultura diversa», precisa Buciuni.



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